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    FAQ

    Le bufale sulle proteste degli agricoltori

    Il Green Deal, frutto di un ambientalismo estremista, danneggia produttori e consumatori

    Falso. Il Green Deal è un programma ambientale progettato e creato allo scopo di agevolare i percorsi di decarbonizzazione ed è uno strumento necessario per contrastare gli effetti sempre più estremi dei cambiamenti climatici da cui derivano, tra le altre cose, gravi danni alle produzioni agricole. Dal Green Deal passa il futuro dell’agricoltura e non la sua fine. Mettere in discussione le strategie europee From farm to fork e Biodiversity 2030 – cardini del Green Deal – significherebbe mettere a rischio la sopravvivenza dell’intero settore agricolo e il futuro del Pianeta. La grave situazione economica in cui versano le aziende agricole (soprattutto di medie e piccole dimensioni) è legata a una politica comunitaria del passato che, per decenni, ha destinato l’80% delle risorse solo al 20% delle aziende, privilegiando le grandi e il metodo intensivo. L’unica soluzione per salvare l’agricoltura è liberarla dalla dipendenza della chimica e puntare sulla diminuzione degli input negativi idrici ed energetici. Accusare il Green Deal significa prendersela con l’unica alternativa possibile per salvarsi.

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    L’utilizzo dei pesticidi è indispensabile per salvare l’agricoltura.

    Falso. L’utilizzo di sostanze chimiche, non solo non garantisce di poter contare su una maggiore resa agricola o di salvaguardare le colture, ma è addirittura nocivo per la salute umana. I pesticidi, oltre a contaminare acqua, aria, suolo e cibo, generano resistenze nelle popolazioni di insetti, scatenando la necessità di trattamenti sempre più frequenti ed efficaci. A ciò si aggiungono gli squilibri legati al rapporto preda-predatore e la conseguente proliferazione di una specie su tutte le altre. Un ragionamento che vale non solo per gli insetticidi ma anche per gli antibiotici. Il loro sempre maggiore utilizzo negli allevamenti ha comportato, ad esempio, lo sviluppo di una pericolosa antibiotico-resistenza. Iniziative come il rinnovo per dieci anni all’utilizzo del Glifosato vanno ostinatamente nella direzione contraria a quella necessaria per salvare il settore agricolo. Il guadagno di oggi è la perdita di domani.

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    L’Europa obbliga a non coltivare il 4% dei terreni per speculare sul lavoro degli agricoltori.

    Falso. La deroga al vincolo di non coltivare il 4% dei terreni destinati a seminativo rischia di trascinare nel baratro gli agricoltori. La misura nasce allo scopo di favorire la difesa dall’erosione e dal dissesto idrogeologico, l’incremento della fertilità dei suoli e la tutela della biodiversità grazie ad aree incolte, siepi, boschetti, stagni e servizi ecosistemici. L’aiuto di insetti utili – come le api – è fondamentale per il raggiungimento di un equilibrio sano tra produttività e ambiente. La grave rarefazione della presenza degli insetti impollinatori – fondamentali per garantire biodiversità agricola e naturale – a cui stiamo assistendo è assai preoccupante. Il rapporto Ipbes-Ipcc spiega chiaramente che il 70% dei suoli europei contiene meno del 2% di sostanza organica. Dati sconvolgenti che fanno ben capire che, per continuare a coltivare, serve ripristinare la fertilità dei suoli.

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    L’Europa vuole sostituire i cibi tradizionali con quelli sintetici.

    Falso. Sgombriamo il campo da equivoci: la carne coltivata non è ancora disponibile in Europa e, dunque, in Italia. Al netto di ciò, è bene chiarire che, comunque, non potrebbe sostituire la carne prodotta da allevamento tradizionale ma solo aggiungere una nuova linea di mercato per i consumatori. Peraltro, l’EFSA, Autorità europea per la sicurezza alimentare, a oggi non ha ricevuto richieste di autorizzazione per quanto riguardala carne coltivata. La ricerca su questo segmento è, fortemente sostenuta dalle grandi aziende multinazionali della carne, evidentemente non interessate a ridurre i consumi di carni, ma ad espandere il loro business verso nuove filiere produttive e segmenti di mercato. Quello sui cibi sintetici è l’ennesimo strumento di distrazione di massa sapientemente utilizzato per mettere in ombra la necessità di un cambiamento dell’attuale modello di allevamento zootecnico intensivo e industriale. Benessere animale, sostenibilità ambientale, riduzione dell’impatto negativo su acqua, aria e suolo sono gli obiettivi verso cui tendere con celerità. Occorre poi lavorare sul fronte culturale per ridurre il consumo di carne, azione utile all’ambiente e alla salute, e scommettere in chiave agroecologica sul made in Italy fatto bene. Solo così sarà possibile salvaguardare gli ecosistemi, abbattere le emissioni, mettere sul mercato prodotti più salubri e garantire agli operatori del settore una maggiore competitività.

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    Le bufale sulle Città 30km/h

    Andare a 30 km/h o a 50 km/h è la stessa cosa in termini di sicurezza stradale.

    FALSO. A livello scientifico è stata stabilita come regola quella dei 30 km/h perché è un limite che, senza rallentare la circolazione, diminuisce drasticamente le percentuali di rischio di mortalità: a 30 km/h la mortalità è praticamente residuale e avviene soltanto in meno del 10% dei casi in cui l’impatto equivale a una caduta dal primo piano, mentre già a 50 km/h la collisione coincide con una caduta dal terzo piano e la probabilità di un Incidente mortale cresce oltre il 50%.

    Inoltre, andando a 30 km/h si riesce ad avere una distanza di arresto di 13 metri, mentre a 50 km/h non sarà più possibile perché la distanza di arresto è più che doppia e si attesta intorno ai 28 metri. A 30 km/h l’angolo visuale del conducente raddoppia rispetto ai 50 km/h e quindi è molto più semplice che si abbia un controllo dei movimenti sulla strada e una capacità di intervento molto più ampia e meglio controllata.

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    A 30 km/h ci si impiega più tempo a spostarsi.

    FALSO. In realtà la velocità media di spostamento in ambito urbano è già oggi molto bassa e non supera mai i 30 km/h. In Europa si va dai 19 km/h di Londra e Berlino ai 26 km/h di Varsavia. In Italia, caratterizzata dal più elevato numero di auto pro-capite d’Europa, i centri urbani sono intasati e le medie di percorrenza sono tra le più basse e comunque ben al di sotto di 30 km/h13. A Bologna, in particolare, secondo TomTom traffic index, la velocità media nelle ore di punta (2023) si attestava già a 32 km/h, per un totale di 63 ore/anno passate nel traffico (+4,17 ore rispetto al 2022). Nel 2023 si andava più lenti che nel 2022. A dimostrazione del fatto che a Bologna non è il limite a 30 km/h a rallentare il traffico, ma il tasso di motorizzazione e l’insufficiente alternativa per trasformare il modal share, assorbendo domanda di mobilità

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    Con la città 30, sostiene il Ministro Salvini, “i problemi (soprattutto per i lavoratori) rischiano di essere superiori ai benefici per la sicurezza stradale”.

    FALSO

    Come per tutti, anche per i lavoratori, le strade sono pericolose, tanto che nel 2022 l’INAIL ha accertato 12.361 incidenti in itinere, di cui ben 9 mortali. Il Piano Nazionale Sicurezza Stradale del MIT sostiene che “dove ci possono essere impatti che coinvolgono veicoli e pedoni, la velocità dovrebbe essere limitata a 30 km/h”, lasciando il limite di 50 km/h alle strade a scorrimento veloce. Non esiste nessun documento governativo che accerti i “problemi” derivanti dalla limitazione della velocità in città.

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    A 30 km/h si inquina di più.

    FALSO. I motori benzina e diesel consumano di più e inquinano molto di più sotto sforzo, quindi in fase di accelerazione e decelerazione, oppure a velocità elevate (resistenza dell’aria). Molto dipende dai comportamenti di guida: “bruciare” i semafori per poi finire in un ingorgo di traffico, fa guadagnare solo qualche secondo. Ecco perché una velocità massima inferiore, specie nelle vie frequentate da pedoni e ciclisti, favorisce un flusso di traffico più uniforme, sicuro e un po’ meno inquinamento.

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    Per salvare vite basta inasprire pene per chi abusa di sostanze e alcool.

    FALSO.

    Se è statisticamente accertato che nel 55% dei casi mortali nelle città, teatro del 73% delle incidenti, le cause sono l’eccesso di velocità, la mancata precedenza ai pedoni sugli attraversamenti e la guida distratta è quindi conseguente stabilire che per ridurre questo rischio sia necessario un provvedimento generale che diminuisca il rischio di mortalità e che il più efficace e diffuso sia quello di abbassare il limite generale di velocità. Inoltre, se si vuol puntare sull’inasprimento delle pene come deterrente, sarebbe più efficace inasprire le pene minime e non quelle massime, meccanismo che, peraltro, ha dimostrato scarsa efficacia.

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    Le bufale sull’eolico

    È vero che l’eolico rovina il paesaggio?

    FALSO. Non esiste un paesaggio come “Dio lo ha creato”. E non esisteranno più i paesaggi come li conosciamo oggi se non combattiamo con una certa velocità l’emergenza climatica. Se non vogliamo cancellare bellezze e peculiarità dei nostri territori, lasciandoli in mano a siccità ed eventi estremi, l’unica soluzione è realizzare tanti impianti eolici e solari, che certamente cambieranno il panorama ma salveranno proprio quello a cui teniamo di più. Ricordando sempre che non esiste l’impianto perfetto!

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    L’eolico distrugge la biodiversità locale.

    FALSO. Come ormai dimostrano tanti studi, l’eolico è non solo perfettamente integrabile nei territori, ma anche nella natura e nelle attività agricole. Nel nostro Paese, infatti, diversi parchi si sviluppano tra uliveti e vitigni. Tante sono ormai le ricerche che dimostrano, ad esempio per l’eolico offshore, quanto la flora e la fauna marina si sviluppino tranquillamente anche in presenza delle pale eoliche. Gli impianti, spesso, anche grazie all’interdizione alla pesca e alla navigazione, si trasformano in aree di ripopolamento e sicurezza. Gli impatti sull’avifauna sono assolutamente limitati e sono mature tecnologie che permettono di fermare le pale quando c’è un consistente passaggio di uccelli.

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    L’eolico limita turismo e fruizione delle aree.

    FALSO. Diversi sondaggi raccontano come non solo ai turisti le pale eoliche non disturbino affatto, ma che pure in presenza di un parco eolico, a mare o su terraferma, tornerebbero tranquillamente nei loro posti del cuore. In Germania addirittura hanno realizzato una guida turistica ad hoc con oltre 200 luoghi, anche con parchi eolici molto grandi, addirittura con la possibilità di salire sulle torri e godere di un panorama dall’alto delle pale eoliche. Anche in Italia esiste una guida simile sviluppata da Legambiente, si chiama “Parchi del vento” ed è consultabile online (parchidelvento.it).

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    L’eolico è una fonte di produzione di energia intermittente e non potrà mai garantire la sicurezza energetica.

    FALSO. Certo, l’eolico è una tecnologia che produce energia solo quando è disponibile la risorsa vento. Come il solare che produce energia quando c’è il sole. Per questo si parla di mix delle tecnologie, da associare a sistemi di accumulo e sviluppo della rete, per garantire produzione e sicurezza del sistema.

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    In Italia non c’è abbastanza vento, infatti le pale sono quasi sempre ferme.

    FALSO. Le pale eoliche lavorano mediamente per due terzi del tempo e si fermano solo in mancanza di vento o quando sono in manutenzione. Una condizione normale e considerata negli investimenti delle imprese. Oggi non ci sono incentivi in conto capitale destinati agli impianti solo per averli costruiti, i ritorni economici derivano solo dalla produzione dell’energia elettrica immessa in rete.

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    Le bufale sulle auto elettriche

    L’auto elettrica è solo per ricchi?

    No. Oggi un’utilitaria elettrica costa circa 10.000 euro più dell’equivalente modello a combustione. Ma mentre il prezzo dell’elettrico scende, quello delle auto nuove a combustione sale (+32% in 10 anni). Dal 2026-27 arriveranno a costare uguale. Nella gestione (carburante, manutenzione) l’elettrica già oggi costa meno. Il vero punto è che le auto di proprietà sono sempre più care, serve un’alternativa popolare.

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    Il 2035 è troppo presto per passare all’elettrico?

    No, è troppo tardi, invece. Stellantis, Ford, Kia, Renault, Mercedes, Jaguar e Volvo hanno già annunciato che produrranno solo elettrico dal 2030. Volkswagen prevede di vendere l’80% di elettrico al 2030, Toyota il 60%. Conti alla mano, già nel 2030 il 90% delle auto vendute saranno elettriche. Nei primi tre mesi del 2023 in Europa si sono vendute 320.000 auto a batteria, in Italia appena 16.000.

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    È vero che mancano le colonnine e si perde troppo tempo per ricaricare?

    Falso. Al 31 dicembre 2022 in Italia c’erano 36.772 punti di ricarica su suolo pubblico, non sempre funzionanti e talvolta occupati da auto in sosta abusiva. Poche le ricariche veloci, specie in autostrada, a causa dell’ostracismo dei gestori. Ma la maggior parte delle 187.455 auto elettriche circolanti in Italia (dato al 30 aprile 2023) si ricaricano in garage o in azienda, a meno della metà del costo della benzina. Chi usa l’auto elettrica sa che raramente fa il “pieno” in viaggio.

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    Senza petrolio il trasporto di massa è destinato a collassare?

    Falso. La mobilità elettrica è invece già oggi prevalente nelle ferrovie, nel trasporto collettivo (metro, tram, filobus, scale mobili, funicolari e ascensori), nei mezzi leggeri (monopattini, bike) e nella sharing mobility (scooter e auto). Nel 2030 saranno elettrici tutti gli autobus di Milano, Roma, Torino, Napoli e di altre città. Purtroppo, in Italia l’offerta di trasporto rapido di massa (treni pendolari) è tre o quattro volte inferiore alle aree urbane spagnole, francesi, inglesi e tedesche (vedi dossier “Pendolaria” di Legambiente).

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    Le terre rare utilizzate per le batterie sono pericolose e non si riciclano?

    Il litio è il quinto minerale più diffuso sulla Terra. Anche il cobalto è un metallo, spesso citato perché controllato da aziende minerarie cinesi che sfruttano manodopera minorile in Congo. A Teverola (Ce) ha aperto la prima fabbrica italiana di batterie al litio che non usa il cobalto. Le terre rare sono usate in tutti i prodotti elettronici, elettronica delle auto inclusa, e per legge devono essere riconsegnati ai produttori per il riciclo.

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    Ponte sullo Stretto

    Infrastrutture di questo tipo e di questa lunghezza si fanno ovunque?

    FALSO. Il progetto prevede una campata unica di 3,3 km di lunghezza, quello con la campata più lunga al mondo, il ponte dei Dardanelli in Turchia, è di circa 2 km ed è solo stradale. E poi Calabria meridionale e Sicilia orientale sono comprese nella zona sismica 1 (a maggior pericolosità), secondo la classificazione (aggiornata al 2020) del dipartimento di Protezione Civile.  

    Il progetto prevede una campata unica di 3,3 km di lunghezza. La campata più lunga al mondo è di circa 2 km, in Turchia. Inoltre, lo stretto di Messina è nella zona sismica 1 (a maggior pericolosità̀), secondo la classificazione del 2020 della Protezione Civile. 

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    Serve a chi ogni giorno si sposta da una sponda all’altra?

    NO. Il punto minimo di attraversamento si allontanerebbe dalle aree metropolitane di Messina e Reggio, peggiorando spostamenti e tempi di percorrenza per le 4.500 persone che fanno i pendolari tra le due sponde, addirittura raddoppiando i tempi per chi parte da un capoluogo per raggiungere l’altro. Con il ponte il percorso avrebbe una durata poco inferiore a un’ora, con un risparmio di 15 minuti rispetto al tragitto in traghetto con auto, che impiega 30 minuti ma a cui va aggiunto l’imbarco. Peggiori, invece, i tempi per chi usa il trasporto pubblico.  

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    Grazie all’alta velocità, renderebbe rapidi i collegamenti delle città siciliane con Roma e il Nord?

    NO. Secondo le previsioni di Fs, il tempo di percorrenza tra Roma e Palermo sarà di 7 ore. Ma solo quando anche i lavori dell’alta velocità tra Palermo e Messina e tra Reggio e Salerno saranno completati. Tempi non competitivi con i collegamenti aerei. Inoltre, il piano complementare al Pnrr finanzia con 10 miliardi solo una tratta della Salerno-Reggio, che non sarà completata prima del 2030 e che allungando il tragitto di 52 km permetterebbe di risparmiare solo 5 minuti rispetto al percorso attuale.  

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    Sarà sostenibile dal punto di vista ambientale?

    NO. Qualunque sforzo per rendere sostenibile l’infrastruttura verrebbe annullato dall’impatto sulle 2 Zone di protezione speciale e sulle 11 Zone speciali di conservazione. Nello Stretto c’è una delle più alte concentrazioni di biodiversità al mondo e già nel 2005 Bruxelles era pronta ad aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia proprio in relazione al progetto. Rilevanti sarebbero anche gli impatti sull’ecosistema marino, dove sono presenti flussi migratori e passaggi di cetacei, oltre che specie abissali e praterie di Posidonia.

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    Il Ponte è economicamente sostenibile?

    FALSO. È stato già speso 1 miliardo di euro in progetti, ma non si ha ancora idea di quanto costerebbe. Siamo passati dai quasi 5 miliardi stimati nel 2001 ai 6,3 nel 2011, fino agli 8,5 del 2012. Nell’ultimo decreto del governo, il costo per fare il ponte e le opere ferroviarie e stradali di accesso è di 14,6 miliardi. Il doppio rispetto al Fondo con il quale ogni anno vengono finanziati i servizi di trasporto su gomma e ferro in tutta Italia.  

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    Eolico off-shore

    Quali vantaggi offre un parco eolico offshore?

    Un impianto offshore galleggiante (floating) è lontano dalla costa e dunque invisibile agli occhi; non necessita l’ancoraggio delle pale nel fondale marino; produce molta più energia di un parco eolico a terra e sarà in grado di fare la differenza per la transizione e l’indipendenza energetica italiana. Le turbine possono essere considerate come scogliere artificiali che costituiscono un luogo ideale per il ripopolamento ittico e la protezione della biodiversità marina. Diventeranno delle vere e proprie riserve marine.

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    Le catene e le ancore delle pale eoliche disturbano la fauna marina?

    I sistemi di ancoraggio sono molteplici, sia in materiale sintetico, sia metallico. Qualunque sia la scelta è possibile ingegnerizzare il sistema per ridurre al minimo e prossimi allo zero gli impatti con la fauna marina. Durante tutta la fase di costruzione così come durante le operazioni, saranno installati dei sensori per rilevare il livello di eventuale disturbo sonoro per i pesci e per l’avifauna.

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    Le pale sono pericolose per gli uccelli, soprattutto quelli migratori?

    No. Gli impianti sono generalmente realizzati fuori dalle rotte migratorie e le turbine possono essere dotate di sensori che consentiranno di fermare il movimento rotatorio delle pale in caso di rilevamento di stormi in avvicinamento. Tale sistema è in fase di installazione presso l’unico parco marino attualmente installato in Italia, a Taranto. Anche dal punto di vista cromatico si osserveranno le direttive per fare in modo che siano ben visibili dagli uccelli in avvicinamento.

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    Quanto dura un parco eolico offshore?

    La vita media di un parco marino è di circa 25 anni. Il parco eolico è costituito principalmente con materiali recuperabili, come ad esempio l’acciaio, così da essere quasi interamente riciclati alla fine del ciclo di vita. Le ancora saranno ormai parte del fondale marino grazie al loro ruolo di ripristino dell’ecosistema marino.

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    Un parco eolico così immenso toglierà la sussistenza dei pescatori?

    No. I parchi eolici vengono costruiti al di fuori delle rotte dedicate al trasporto e alla pesca. Lo spazio dedicato al parco eolico sarà un fermo pesca effettivo e permetterà la ricostituzione dell’ecosistema marino, depauperato da anni di metodi di pesca illegale e fortemente dannosa.

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    Un impianto eolico emette onde elettromagnetiche dannose per l’ambiente?

    Ci sono molti parchi eolici nel mare del nord e al largo delle coste inglesi ed in tutti gli studi prodotti, anche da enti di controllo indipendenti, non si registra alcuna emissione di onde elettromagnetiche provenienti da un parco eolico.

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    Plastica monouso

    La direttiva Sup è importante per l’ambiente?

    VERO. La direttiva 2019/904 “sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente”, chiamata anche Sup da single use plastic, nasce dall’evidenza che sulle spiagge europee dall’80 all’85% dei rifiuti marini rinvenuti sono plastica e, di questi, gli oggetti monouso rappresentano il 50%. Se vogliamo passare dall’economia lineare a quella circolare dobbiamo acquisire modelli di consumo e comportamento differenti. Le misure previste nella direttiva vanno in questo senso.

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    La direttiva Sup mette a rischio l’industria italiana?

    FALSO. Lo schema di decreto legislativo del ministero della Transizione ecologica per recepire la direttiva Sup riconosce all’Italia la leadership internazionale su bioeconomia, produzione di plastiche compostabili, raccolta differenziata dell’umido domestico e filiera industriale del compostaggio, che sta riconvertendo diversi impianti produttivi nei poli chimici in via di dismissione in tutto il Paese.

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    L’Italia ha chiesto una deroga per i prodotti usa e getta in bioplastica?

    VERO. La deroga contenuta nella legge di delegazione europea approvata in Parlamento per i prodotti biodegradabili e compostabili, dove non è possibile ricorrere ad alternative riutilizzabili, è un passaggio fondamentale per riconoscere il valore della filiera tutta italiana della chimica verde e della produzione di compost, su cui il nostro Paese deve fare da apripista in Europa.

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    Le bioplastiche sono la soluzione al problema dei rifiuti marini?

    NO. Anche se la proprietà di un prodotto di essere “biodegradabile e compostabile” comporta una riduzione del rischio ecologico, questo non giustifica il suo abbandono nell’ambiente. Le bioplastiche compostabili devono essere raccolte e differenziate correttamente come gli altri materiali, per poi essere recuperate sotto forma di compost.

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    Perché Legambiente supporta le bioplastiche?

    Legambiente è sempre a favore delle iniziative per combattere l’inquinamento, e l’avvento delle bioplastiche va in questa direzione se correttamente utilizzate, smaltite e trattate. Ad esempio, grazie al bando dei sacchetti in plastica in favore di quelli compostabili e biodegradabili da utilizzare per la raccolta dell’umido, il numero delle buste in plastica in circolazione è diminuito di quasi il 60% negli ultimi 10 anni. C’è ancora molto lavoro da fare ovviamente, per la sensibilizzazione e in termini di controlli contro l’illegalità, ma questo è un risultato davvero importante.

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    Idrogeno verde

    È vero che ci sono almeno tre colori dell’idrogeno che potranno traghettare l’Italia verso gli obiettivi di decarbonizzazione?

    È falso. I colori dell’idrogeno sono 5 e dipendono dalla fonte primaria utilizzata per la sua produzione. Abbiamo il nero estratto dall’acqua usando la corrente prodotta da una centrale elettrica, a carbone o a petrolio, il grigio prodotto dallo scarto produttivo di una reazione chimica o dal metano o da altri idrocarburi, il più utilizzato in questo momento ma non esente da emissioni climalteranti. Il blu, sempre prodotto attraverso le fonti fossili ma accompagnato da sistemi di cattura della CO2 non sicuri. Il viola, un rischio che non ci riguarda perché prodotto con il nucleare. E infine il verde, l’unico a cui guardare perché prodotto attraverso le fonti rinnovabili. Tutti gli altri usi, compresi quelli che prevedono sistemi di cattura, rappresentano solo una distrazione di risorse economiche dai veri obiettivi di sviluppo del nostro Paese.

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    L’idrogeno verde sarà la soluzione a tutti i problemi climatici ed energetici?

    I processi di produzione dell’idrogeno, che va considerato un vettore energetico e non una fonte energetica, richiedono un grande dispendio di energia. Ad esempio, se decidessimo di mandare tutto il nostro parco auto urbano italiano a idrogeno verde, dovremmo aumentare la produzione di energia elettrica del 44%, contro un aumento del 15%, ben più gestibile, se lo stesso parco automobilistico fosse trasformato direttamente a elettrico. È bene quindi concentrare l’utilizzo di questo vettore solo per quei punti di consumo difficilmente riconvertibili con le rinnovabili, come i poli siderurgici o la mobilità pesante come quella navale e aerea.

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    In questa fase è necessario sviluppare l’idrogeno grigio e blu, in attesa che quello verde sia economicamente sostenibile?

    No. L’idrogeno grigio è quello tecnicamente più maturo, ma l’utilizzo delle fonti fossili non è la soluzione all’emergenza climatica e investire su di esse rallenterebbe la corsa alla decarbonizzazione. È decisamente poco realistico puntare su alcune infrastrutture energetiche per poi cedere il passo ad altre dopo appena 10/15 anni, molto prima del loro fine vita. È evidente che non reggerebbe il modello economico e che l’idrogeno fossile diverrebbe un concorrente di quello verde, ritardandone lo sviluppo.

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    Agrivoltaico

    È possibile coniugare la realizzazione di impianti solari fotovoltaici con l’agricoltura?

    Ormai è ampiamente dimostrato, attraverso casi concreti e non solo nel nostro Paese, come la produzione di energia possa rappresentare un aiuto concreto per gli agricoltori. Senza mettere in competizione lo spazio per la produzione di cibo con quello per la produzione energetica.

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    L’ombra generata dai moduli fotovoltaici sul suolo riduce la resa agricola?

    È dimostrato come per alcune specie non vi sia alcun impatto, mentre per altre come il grano può esservi addirittura un incremento nella produzione. Alcuni studi mostrano come l’ambiente sotto i pannelli sia molto più fresco in estate e più caldo in inverno, riducendo così i tassi di evaporazione delle acque di irrigazione nella stagione calda e provocando meno stress alle piante.

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    Per raggiungere gli obiettivi climatici europei sono sufficienti tetti e coperture?

    Il raggiungimento degli obiettivi climatici passa dalla quantità di impianti rinnovabili che riusciremo a installare nei nostri territori. Il maggior contributo deve arrivare da solare ed eolico, con tassi di installazione superiori a quelli attuali. Molti studi dimostrano come tetti, coperture e superfici marginali non siano sufficienti al raggiungimento di tali numeri. Per questo sarà necessario utilizzare anche altre superfici, come quelle agricole. Secondo le stime di Legambiente, Greenpeace, Italia solare e Wwf, per raggiungere gli obiettivi di sviluppo del fotovoltaico servono 30-50 GW di installazioni: il 30% circa da realizzare su tetti e terreni industriali o contaminati, la parte restante su 40-70.000 ettari di terreni agricoli, pari allo 0,2-0,4% dei terreni coltivabili disponibili.

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    Esiste una normativa adeguata?

    Vero, per questo è importante fare pressione sul governo affinché vengano al più presto approvate norme adeguate e uniformi che consentano la corretta e trasparente realizzazione di questi impianti.

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    Biometano

    Dove andrebbero collocati gli impianti per biometano e qual è il loro corretto dimensionamento?

    Per quel che riguarda gli impianti che trattano rifiuti, la soluzione ottimale è realizzare questi impianti su scala provinciale, nelle aree industriali, nei pressi dei luoghi di maggior produzione dei rifiuti, per limitare al massimo il loro spostamento sul territorio. Sul dimensionamento bisogna avere uno sguardo prospettico e una buona pianificazione: nei prossimi anni le percentuali di raccolta differenziata dell’organico aumenteranno inevitabilmente e di questo bisogna tenerne conto già da subito.
    Gli impianti per i fanghi di depurazione dovrebbero essere realizzati nei siti dove sono gli impianti di trattamento delle acque reflue.
    Per gli impianti agricoli, la dimensione ideale è data dalle matrici agricole disponibili in azienda e nel suo immediato circondario, e vanno realizzati in posizione tendenzialmente baricentrica rispetto ai luoghi di produzione.

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    Il biometano è fonte di sviluppo di batteri patogeni, ad esempio clostridi, nel digestato?

    La letteratura scientifica è ampiamente concorde nel ritenere che il processo di digestione anaerobica abbatta il contenuto della maggior parte dei batteri nocivi per l’uomo, rendendo più sicuro l’uso del digestato rispetto al refluo zootecnico tal quale in ingresso. I risultati infatti indicano non solo una sostanziale neutralità dei processi anaerobici ma anche un’evidente tendenza alla diminuzione di patogeni dopo la digestione.

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    Produrre biogas/biometano è fonte di odori sgradevoli?

    Gli odori provengono principalmente dalle fasi di trasporto e stoccaggio del materiale in arrivo e in uscita. Per questo i moderni impianti generalmente prevedono un ambiente chiuso per il recepimento e lo stoccaggio del materiale, dotato di unità di captazione e trattamento aria, che previene la diffusione degli odori. Dopodiché è il processo biologico anaerobico in sé che riduce gli odori sgradevoli, ottenendo anzi un effetto igienico sanitario sulla materia prima utilizzata.

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    La produzione di biogas/biometano è fonte di emissioni inquinanti?

    Le emissioni inquinanti durante il processo sono minime rispetto ad altri tipi di impianti e sono più controllate. Il primo step per la produzione di biogas è la digestione anaerobica, ovvero un processo di degradazione attraverso il quale il materiale organico viene trasformato in biogas grazie alla fase di fermentazione che avviene in ambienti chiusi, in assenza di ossigeno e senza rilascio di emissioni gassose in atmosfera. Nella fase di upgrading invece, ovvero di passaggio da biogas a biometano, la miscela di gas viene depurata attraverso la rimozione di solidi in sospensione e tracce di altri gas (CO2, H2S, H2O, NH3) tramite processi quali filtrazione fisica, desolforazione, deumidificazione e filtrazione su carboni attivi. Negli impianti più evoluti, durante il processo di upgrading, è previsto il recupero della CO2 che ha sbocchi di mercato o nell’industria dei gas tecnici o nell’industria alimentare o come componente per la produzione di materiali.

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    Grandi Predatori

    La presenza di lupi e orsi è incompatibile con le attività umane?

    Falso. Il lupo preferisce le prede selvatiche. Può tuttavia causare danni agli allevamenti, ma ciò si verifica soltanto dove è stata perduta la pratica della custodia dei capi al pascolo. Le predazioni agli allevamenti non possono comunque essere sottovalutate: ci sono molti casi di allevatori, che con un’opportuna custodia e con la ripresa delle pratiche tradizionali di montagna, non hanno subito danni al bestiame.

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    Il numero di lupi e di orsi crescerà in modo esponenziale su scala locale?

    La natura, nella sua perfezione, non permette ciò. I grandi predatori, infatti, occupano il vertice della catena alimentare. Per questo, se diventassero troppo numerosi finirebbero per ridurre in maniera eccessiva le prede a loro disposizione, minacciando così la propria stessa sopravvivenza.

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    È vero che, dopo i recenti avvenimenti in Trentino con l’orso bruno e le predazioni sugli Appennini attribuite al lupo, è stata aperta la caccia per le due specie?

    Non è vero. Il lupo e l’orso bruno sono specie non cacciabili e particolarmente protette dalla normativa italiana, tutelate da direttive comunitarie e convenzioni internazionali. Per l’orso bruno, in Trentino, sono state emanate ordinanze di rimozione per casi puntuali (tramite riduzione in cattività o abbattimento), peraltro molto contestate.

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    Il lupo, in Italia, è stato reintrodotto in territori in cui non era più segnalato da molti anni?

    Nessun lupo è stato mai catturato per essere poi liberato in altro luogo a scopo di ripopolamento. La sua espansione è frutto solo di dinamiche naturali, dell’incremento numerico, della diffusione delle sue prede selvatiche e delle politiche di conservazione intraprese a sua tutela. Anche se ha subito nella prima parte del ’900 una forte riduzione, non è mai scomparso.

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    Lupi e orsi aggrediscono immotivatamente le persone?

    Storie di aggressioni alle persone in quanto considerate da questi animali selvatici come possibili prede, sono leggende. Secoli di difficile coesistenza con l’uomo hanno plasmato il comportamento del lupo, che evita l’uomo se può. Se si eccettuano infatti episodi più o meno recenti di animali problematici (ad esempio perché sin da cuccioli sottratti alla vita naturale oppure caratterizzati da comportamenti confidenti indotti e anomali), non esistono casi documentati, dal dopoguerra ad oggi, di attacchi di lupi non confidenti come atto di predazione nei confronti dell’uomo. Anche per l’orso bruno l’uomo non rappresenta una preda né l’obiettivo di immotivata aggressività. In Appennino centrale in particolare, dove esiste una sottospecie distinta da quella alpina, non sono mai stati registrati atteggiamenti di aggressione mentre, gli episodi recenti registrati sulle Api rientrano nel novero di individui che si sono resi protagonisti di attacchi a persone e che sono meno di 10 negli ultimi 35 anni. Tali episodi, in generale, sono da ascrivere al mancato accompagnamento della presenza di questo plantigrado con politiche di convivenza e di corretta informazione. Di base, la pericolosità di un individuo è generalmente correlata ad altri fattori, come la presenza dei piccoli o la difesa di una preda/carcassa su cui l’animale si alimenta. Inoltre, utilizzare ripetutamente fonti di cibo legate alla presenza umana costituisce un altro comportamento errato per questi animali che può generare ulteriore di rischio.

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    Nucleare

    Che cosa sono i rifiuti radioattivi, come si classificano?

    Eredità dalle passate attività nucleari e oggi generati anche da attività di ricerca, mediche e industriali, sono quei materiali radioattivi (liquidi, gassosi o solidi) per i quali nessun utilizzo ulteriore è previsto e che devono essere smaltiti. La nuova classificazione prevede la suddivisione in 5 classi in funzione della radioattività e del tipo di deposito necessario al loro stoccaggio, temporaneo o definitivo: rifiuti radioattivi a vita media molto breve, ad attività molto bassa e di bassa, media e alta attività. Quelli ad alta attività sono destinati a un deposito geologico ancora da individuare in Europa, le altre categorie finiranno al Deposito nazionale.

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    Quanti rifiuti radioattivi ci sono in Italia e chi li produce?

    Secondo gli ultimi dati (dicembre 2019) dell’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin), in Italia ci sono poco meno di 31.000 m3 di materiale radioattivo, corrispondenti a 2,9 milioni di Giga-Becquerel (unità di misura che esprime la “carica” dei rifiuti radioattivi). Anche se in Italia centrali e altre installazioni connesse al ciclo del combustibile non sono più in esercizio, sono ancora necessarie le attività legate al loro smantellamento e alla gestione dei rifiuti radioattivi prodotti. Sono inoltre ancora attivi alcuni piccoli reattori di ricerca ed è sempre più diffuso l’impiego di sorgenti di radiazioni ionizzanti nelle applicazioni mediche, nell’industria e nella ricerca, con conseguente produzione di rifiuti.

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    Dove sono gestiti oggi i rifiuti nucleari?

    24 impianti in 8 regioni (Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Campania, Basilicata, Puglia e Sicilia), a cui si aggiungono 95 strutture che utilizzano “sorgenti di radiazioni”, cioè materie radioattive e macchine generatrici di radiazioni ionizzanti. Fra i 24 impianti ci sono le quattro ex centrali nucleari e i due centri di ritrattamento dei combustibili irraggiati (Saluggia, Rotondella). Molte di queste strutture temporanee hanno notevoli criticità impiantistiche e di localizzazione, che le rendono inidonee e pericolose nella gestione dei rifiuti radioattivi.

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    Che cos’è il deposito nazionale unico per il nucleare?

    Si tratta del luogo dove si andranno a sistemare in via definitiva i rifiuti a bassa e media attività che arriveranno dai siti temporanei, dallo smantellamento delle vecchie centrali e dai futuri rifiuti generati dalle attività di ricerca e mediche. La struttura, prevalentemente in cemento armato, prevede barriere ingegneristiche, poste in serie con effetto matrioska, e sfrutterà le barriere naturali dovute alla geologia del sito individuato. Depositi di questo tipo sono già esistenti in Spagna (El Cabril), Francia (L’Aube) e Regno Unito (Drigg).

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    5g

    C’è correlazione fra epidemia da nuovo Coronavirus e rete 5G?

    Non esiste nessuna evidenza scientifica in grado di indicare una possibile correlazione fra epidemia Covid-19 e il 5G. Da notare, inoltre, come il 5G oggi sia poco diffuso anche rispetto alla situazione epidemiologica.

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    La tecnologia 5G richiede l’abbattimento di alberi?

    Non ci sono evidenze di incompatibilità fra la presenza degli alberi e lo sviluppo delle tecnologie wireless. È vero che tecnicamente la migliore condizione per la propagazione del segnale 5G, ma anche degli altri standard, è l’assenza di ostacoli, ma fra questi vanno considerati anche edifici e strutture di altro genere. Andranno considerati nella pianificazione delle antenne. Bisogna poi sottolineare che ad oggi gli abbattimenti sono legati alla scarsa manutenzione del verde arboreo e alle responsabilità amministrative in caso di incidenti. Per questo le amministrazioni preferiscono abbattere gli alberi.

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    Le Arpa non sono in grado di misurare le frequenze del 5G?

    Tutte le Agenzie regionali per la protezione ambientale sono in grado di verificare le emissioni elettromagnetiche essendo dotate di sonde che misurano fino a 40 GHz, comprese quindi anche le onde emesse dallo standard 5G.

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    Il 5G sarà portatore di un aumento di tumori e di altri rischi per la salute?

    Come sta dimostrando la scienza, agli attuali limiti di esposizione non è associato un aumento di malattie tumorali. Se anche le antenne 5G si sommeranno agli altri standard presenti (2, 3 e 4G), il limite di esposizione di 6V/m deve tener conto della presenza di tutti gli standard e complessivamente non può essere superato. Per questa ragione è fondamentale che i limiti vigenti non vengano modificati.

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    È vero che i Comuni con la legge “Semplificazioni” non possono più fare il piano di localizzazione delle antenne?

    La legge “Semplificazioni” non cambia nulla in merito alle possibilità da parte delle amministrazioni di fare piani di localizzazione delle antenne. Specifica soltanto meglio quello che possono o non possono fare rispetto alla legge quadro 36/2001, nella quale la possibilità di pianificazione era descritta in sole due righe, lasciando ampie interpretazioni. Mai i Comuni hanno potuto bloccare standard di comunicazione, introdurre nuovi limiti di esposizione, distanze di sicurezza (poco valide) o dichiarare aree sensibili luoghi senza alcun riferimento oggettivo.

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